giovedì 31 gennaio 2008

Back to NY / 3

Ho appuntamento per le 4 con i rappresentanti della fondazione con cui sto iniziando a collaborare. Visiteremo il Memorial Sloan Kettering Cancer Center, uno dei centri più avanzati al Mondo nella cura dei tumori. Credo abbiano inventato qui la radioterapia.
Non posso nascondere l'emozione che ho provato camminando lungo la 68th per raggiungere l'ospedale che si trova in York Ave. Il MSKCC è l'ospedale in cui è stato operato Tiziano Terzani e di cui racconta nel suo libro "Un altro giro di giostra". Da accanito lettore di Tiziano venire da queste parti mi fa un certo effetto, ripensare alla sua esperienza qui a New York, agli "aggiustatori", come lui chiamava i medici del MSKCC... Penso a come sia partito da qui il suo ultimo lungo viaggio, che lo ha portato dall'assoluta fiducia nella scienza e nella medicina occidentali, all'esplorazione di ogni sorta di cura "alternativa" e alla scoperta, infine, che una cura non esiste e che l'unica guarigione sta nell'accettare la malattia come parte di sé.
E allora, prima di andare avanti con il mio racconto, vi lascio un frammento di quello ben più interessante di Terzani:
"La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l'increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l'umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione. E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent' anni c' ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell'industria, per rifarmi una vita come la volevo. Ora c'ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. Anche la prima volta avevo sentito forte la profonda contraddizione fra la naturale gratitudine per ciò che l'America mi dava - due anni di libertà pagata per studiare la Cina e il cinese alla Columbia University per prepararmi a partire da giornalista in Asia - e il disprezzo, il risentimento, a volte l'odio, per ciò che l'America altrimenti rappresentava.

Quando nel 1967 Angela e io, entusiasti, sbarcammo a New York dalla Leonardo da Vinci che ci aveva presi a bordo una settimana prima a Genova, l'America cercava, con una guerra sporca e impari, di imporre la sua volontà a un misero popolo asiatico armato solo della sua cocciutaggine: il Vietnam. Ora l'America, con una ben più sofisticata, meno visibile e per questo meno resistibile aggressione, stava cercando di imporre al mondo - assieme alle sue merci - i suoi valori, le sue verità, le sue definizioni di buono e di giusto, di progresso e... di terrorismo.
A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Wall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come «progetti di sviluppo», c'erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei Paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri «terroristi»?
Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità. Alle otto la Quinta Strada, a sud di Central Park, a un passo da casa mia, era già piena di gente. Zaffate di profumi da aeroporto mi riempivano il naso a ogni donna che, correndo col solito cartoccio della colazione in mano, mi sfiorava per entrare in uno dei grattacieli. Che modo di cominciare una giornata! (...) La folla a quell'ora era di gente per lo più giovane, bella e dura: una nuova razza cresciuta nelle palestre e alimentata nei Vitamin-shops. Alcuni uomini più anziani mi pareva di averli già visti in Vietnam, allora ufficiali dei marines, e ora, sempre dritti e asciutti nell'uniforme di businessman, sempre «ufficiali» dello stesso impero, impegnati a far diventare il resto del mondo parte del loro villaggio globale.

Quando stavo a New York la città non era ancora stata ferita dall'orribile attacco dell'11 settembre e le Torri gemelle spiccavano snelle e potenti nel panorama di Downtown, ma non per questo, anche allora, l'America era un Paese in pace con se stesso e col resto del mondo. Da più di mezzo secolo gli americani, pur non avendo mai dovuto combattere a casa loro, non hanno smesso di sentirsi, e spesso di essere, in guerra con qualcuno: prima col comunismo, con Mao, con i guerriglieri in Asia e i rivoluzionari in America Latina; poi con Saddam Hussein e ora con Osama bin Laden e il fondamentalismo islamico. Mai in pace. Sempre a lancia in resta. Ricchi e potenti, ma inquieti e continuamente insoddisfatti. Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi: uno dei Paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L'India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo!

A volte avevo l'impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra."

martedì 29 gennaio 2008

Back to NY / 2

Scendo a Spring Street e mi dirigo verso la zona che sulla mappa è segnata come Little Italy. Fin dalla fine dell'800, Little Italy ha ospitato i nostri connazionali, in particolare i meridionali. Di questo ci si accorge subito da due cose: i nomi dei ristoranti (Vesuvio, Napoli, Sicilia, Puglia ecc.) e i negozi di souvenir pieni di magliette inneggianti alla Mafia e ai gloriosi tempi in cui i gangster italiani dominavano il quartiere.
Oggi resta molto poco di quella Little Italy, che metro dopo metro è stata risucchiata dalla sempre più grande Chinatown, con gli edifici, le insegne, gli odori e le facce cinesi.
Di Little Italy è rimasta quasi solo Mulberry Street, in cui il giallo e rosso cinesi lasciano il posto al tricolore italiano. Oltre ai ristoranti e ai negozi di souvenir, la via è piena di botteghe alimentari con prodotti tipici italiani, che hanno proprio quell'odore misto di salumi e formaggio delle nostre alimentari di un tempo, oggi fagocitate dagli ipermercati e rese asettiche dalle normative europee.
Non ho molto tempo: prendo due pezzi di pizza (considerato che siamo a Little Italy, ci sarebbe da aspettarsi molto di meglio...). Seduto al tavolo vicino a me c'è un tipo che, quando stiamo per uscire, mi chiede informazioni sulla metropolitana più vicina. La raggiungiamo insieme. Lui si chiama Joseph ed è di Orlando in Florida. Con cappello, occhiali e cappotto neri, sembra uscito da un film di Martin Scorsese. Scende un paio di fermate prima di me.
Io continuo, destinazione 68th Street, Hunter College.

lunedì 28 gennaio 2008

Back to NY /1

Sono tornato ieri da New York e ora sono qui che ascolto i cd che ho preso ad Harlem.
New York è una città che in qualche modo lascia sempre dentro qualcosa. Ci arrivo giovedì sera. Questa volta con un autobus confortevole e puntualissimo, che mi lascia a due passi da Times Square.
Giusto il tempo di mangiare qualcosa al volo e poi vado in ostello, lo stesso dell'altra volta, vicino a Central Park, sulla 103rd street west. Nella stanza ci sono 8 posti a letto, ma sono quasi tutti vuoti. Dentro c'è un ragazzo turco che, per non smentire i luoghi comuni, fuma come un turco. Mi metto presto a letto.
La mattina del venerdì mi alzo di buon mattino. Vado a fare colazione a uno Starbucks vicino l'ostello e poi prendo la metro, destinazione South Ferry. Da qui partono i traghetti che portano alle isole: Staten Island, Liberty Island e Ellis Island. La prima è un vero e proprio quartiere di New York, non una gran bella zona a quanto si dice.
Liberty Island è l'isola da cui la Statua della Libertà "fiera abbraccia tutta quanta la Nazione". Ellis Island è invece l'antico approdo degli immigrati di un tempo, quelli che arrivavano per mare alla scoperta del Nuovo Mondo. Il bel palazzo in cui un tempo le masse di immigrati venivano lasciate ad aspettare il visto per l'America, ora è sede del Museo dell'Immigrazione.
Dopo aver passato i controlli di sicurezza, prendo il traghetto per la Liberty Island. Il paesaggio è molto bello: da una parte New York e i grattacieli che si allontanano, dall'altra la Statua che lentamente si avvicina. Anche qui, più che il piacere di scoprire, vale quello di riconoscere ciò che sempre si è visto.
Faccio la fila per entrare nella Statua. La borsa devo lasciarla in una delle cassette di sicurezza, che si aprono e si chiudono con l'impronta digitale (l'amenità tecnologica costa 1$ per 2 ore, ma assolutamente ne vale la pena!). Segue una perquisizione severa, con macchinario metal detector che per qualche strano motivo che non capisco spara dei soffi d'aria addosso alla gente.
Dentro la Statua ci sta un piccolo museo: ci sono alcuni pezzi dei calchi usati per costruirla (il mio preferito è l'orecchio della Libertà), immagini varie della Statua e centinaia di riproduzioni in vari materiali e dimensioni. Ci sono anche degli schermi che proiettano un filmato su come la Statua è stata costruita.
Dopo l'11/9 la Statua è stata in parte chiusa e non si può più salire fino alla corona: si arriva solo alla fine del piedistallo, che è alto circa 45 metri (la Statua è alta altri 45 metri).
Salgo le scale fino a dove si può, faccio il giro del piedistallo e qualche foto alla Statua e a NY vista da lontano. Torno giù, vado a recuperare la mia borsa e prendo il traghetto di ritorno, che passa da Ellis Island (dove però non scendo perché non mi basta il tempo). Sono circa le 12 quando torno sulla terra ferma e salgo in metropolitana, direzione Chinatown / Little Italy.

sabato 19 gennaio 2008

L'indiano e lo svedamericano

Metti una sera a cena, in un ristorante indiano da qualche parte qui in Virginia, un indiano e uno svedese-danese-americano.
Lo svedamericano si chiama Jonas e da quando è nato gira il Mondo, tant'è che non sa rispondere alla domanda "where are you from?". Perché lui è svedese, è danese ed è americano; ha vissuto in Svezia, Danimarca, Stati Uniti, Togo, Camerun, Dubai, Repubblica Ceca e forse qualcuno l'ho dimenticato. Non deve avere più di 27-28 anni, il che significa che in ognuno questi posti in media ci ha vissuto meno di 4 anni. Dei primi 3 ha la nazionalità, ma a nessun può dire di appartenere. Jonas è laureato in Business Administration e lavora in azienda: 50 settimane all'anno di lavoro, 2 di ferie.
L'indiano si chiama Prateek e viene dall'India e, più precisamente, dal Nord dell'India. Porta un anello con una grossa pietra verde al mignolo, un portafortuna in cui però non crede poi tanto: per sapere se davvero ti ha portato fortuna, dovresti rivivere la tua vita senza portarlo addosso.
Prateek ha scritto nella mano che lui diventerà ricco un giorno. Ma non si è ancora fatto un'idea di come possa venirgli questa ricchezza. Forse chi gli ha letto la mano si riferiva a "un altro tipo di ricchezza". Di certo sa che la "ricchezza materiale" non gli verrà dal lavoro. Lui è nato di domenica e considera questo un segno del destino: "Sono nato di domenica, non sono nato per lavorare".
Dice a Jonas che lui ha un lavoro, ma non lavora. Il biondo svedamericano non coglie la differenza e lui spiega: "C'è una differenza fra avere un lavoro e lavorare: avere un lavoro significa che qualcuno ti paga per farlo, lavorare significa fare qualcosa". E lui, Prateek, quel qualcosa non lo fa.
In ufficio la sua unica preoccupazione è quella di sembrare indaffaratissimo, pieno di lavoro fino al collo, in modo da farsi dare meno lavoro possibile dal suo capo. Lui fa finta di lavorare al solo scopo di non lavorare.
Jonas rabbrividisce, lo guarda come se fosse un alieno o un fantasma. "Ma se lavori di più, puoi guadagnare di più, essere promosso", dice. E Prateek: "No, dove lavoro io non puoi guadagnare di più e non ci sono neanche promozioni". Jonas non crede alle sue orecchie e si arrende e tace e sorride come chi ha capito di avere a che fare con un matto.

martedì 15 gennaio 2008

Recinzioni

Ecco una chicca: Nanni Moretti legge le "Recinzioni" di Johnny Palomba. (fonte: Tg2 Dossier di sabato 12 gennaio 2008).

sabato 12 gennaio 2008

Pantless Metro Day


Si è tenuto oggi, a Washington DC, il "Pantless Metro Day": tutti in metropolitana senza pantaloni!
...e, vi prego, non chiedetemi perché...

venerdì 11 gennaio 2008

Un Minotauro al Kennedy Center

January 11, 2008
Vinicio Capossela at the J. F. Kennedy Center, Washington DC
Eccentric Italian folk artist Vinicio Capossela presents music portraying entire worlds infested by demons, grace, shadows, lost souls, and losers.
...incredibile ma vero...
Torno dalla pausa pranzo e, prima di rimettermi al lavoro, do uno sguardo agli eventi del fine settimana. E che cosa spunta? Vinicio Capossela in concerto, a due passi dall'ufficio. L'orario è strano, le 6 di pomeriggio. L'ultima volta Capossela l'ho visto a Roma, terrazzo del Pincio, anche lì alle 6. Ma allora erano le 6 del mattino, per la chiusura della Notte Bianca 2006...
Non perdo l'occasione e mi informo sull'autobus che porta al Kennedy Center. E' un grande teatro, con diverse sale. Lo stile è quello solito americano: pomposo e magnificente, con il caratteristico effetto finto-lusso che qui piace tanto.
Appena entrati ci si ritrova in una galleria con moquette rossa e alle pareti appese le bandiere di tutti gli Stati. In fondo alla galleria c'è la sala con il palco dove, mentre arrivo, fa la sua apparizione il buon Vinicio.
Durante le prime due canzoni la platea sembra un po' perplessa: forse non si aspettavano un tizio con la maschera di Minotauro che muggisce sul palco... Poi però lui spiega le prime due canzoni e presenta la terza: "a mythological chachacha". La Medusa conquista il pubblico e la restante ora di concerto vola via. Si chiude con l'esilarante "L'uomo vivo (inno alla gioia)", con applausi ritmati e tutti in piedi.
Lui saluta, ringrazia, si scusa per non essersi potuto candidare alle presidenziale ma promette: "We'll do something else".

Ecco, dal sito ufficiale del Kennedy Center, il video della perfomance.

giovedì 10 gennaio 2008

Chiudere Guantanamo

"Guantanamo, 11 gennaio 2002 – 11 gennaio 2008: Amnesty International
rilancia la
campagna per la chiusura del centro di detenzione e la fine delle
detenzioni illegali.

Venerdi’ 11 gennaio ricorrera’ il sesto anniversario dell’apertura di uno
dei centri di detenzione piu’ tristemente famosi del mondo, diventato il
simbolo delle violazioni dei diritti umani nel contesto della “guerra al
terrore”: Guantanamo Bay.

L’impegno di Amnesty International, negli ultimi cinque anni, ha ottenuto
risultati importanti: centinaia di prigionieri rilasciati, prese di
posizione dei principali organismi internazionali, di leader politici e di
molti governi per la chiusura del centro di detenzione.

Tutto questo, tuttavia, non basta: Amnesty International proseguira’ la
sua campagna “Chiudere Guantanamo, ora!” fino a quando il centro di
detenzione non verra’ chiuso e i prigionieri non verranno sottoposti a un
processo regolare oppure rilasciati, per porre fine a queste e a tutte le
altre detenzioni illegali nel contesto della “guerra al terrore”.

Con questi obiettivi, Amnesty International organizza manifestazioni in
diverse citta’ italiane. Questi gli appuntamenti:

Ancona
12 e 13 gennaio dalle 16.00 alle 20.00
Manifestazione in tuta e banchetto per raccolta firme a Piazza Roma

Bologna
12 gennaio - Manifestazione in Piazza Re Enzo. Attivisti di Amnesty
International in tuta arancione per ricordare i prigionieri di Guantanamo.

Firenze
11 gennaio dalle ore 10.00 alle ore 17.00 - Presidio con tavolo per
raccolta firme e attivisti in tuta arancio, davanti al consolato USA, in
Lungarno Amerigo Vespucci 38

Foggia
11 gennaio dalle ore 17.30 alle ore 20.30 al Centro Commerciale Cristallo
-
Manifestazione e raccolta firme.
Sara’ allestita anche una postazione per scrivere lettere e cartoline a
due detenuti (Fawzi al Odah e Sami al Hajj) e alle loro famiglie, per
manifestare loro sostegno e incoraggiamento.

Milano
12 gennaio dalle ore 10 alle ore 20 in via Mercanti (lato Cordusio) -
Tavolini di raccolta firme e attivita’ di animazione.

Roma
11 gennaio ore 11 - Manifestazione di fronte all’Ambasciata Usa di Roma,
in via Veneto

Roma
11 gennaio ore 20 - Manifestazione Guantanamo. Per Non Dimenticare –
Caffe’ Fandango. Piazza Di Pietra, 32/33(zona Pantheon): proiezione del
film The Road To Guantanamo

Mestre
13 gennaio dalle 10 alle 18 - Manifestazione per raccolta firme in piazza
Ferretto


Da domani, sul sito
www.chiudereguantanamo.it, testimonianze sulle
condizioni nel centro e approfondimenti sulla sorte degli ex prigionieri,
sulla situazione dei detenuti “autorizzati per il rilascio” ma ancora
bloccati a Guantanamo e sul conflitto tra l’amministrazione Bush e la
Corte suprema federale Usa. Attraverso questo sito sara’ possibile anche
inviare messaggi di solidarieta’ a Sami al Hajj, giornalista della
televisione al Jazeera, detenuto a Guantanamo dal 2002."

lunedì 7 gennaio 2008

Fantapolitica

Ieri sera in TV hanno trasmesso il dibattito con cui si è chiusa la campagna elettorale per le primarie in New Hampshire. Dalle 19 si sono confrontati i candidati Repubblicani, intorno alle 9 è stato il turno dei Democratici.
Non ho seguito l'intero dibattito con grande attenzione. Sono rimasto però colpito dal modo in cui qui si affrontano le questioni di politica estera.
Non c'è differenza, di fatto, fra il modo in cui i candidati affrontano le questioni di casa propria e quello in cui parlano degli affari altrui. Parlano di rimuovere un capo di Stato di un altro Paese con la stessa facilità con cui da noi si parlerebbe di cambiare l'allenatore di una squadra di calcio. E a chi vuole fare in modo che il presidente di questo Stato (si parlava del Pakistan) si dimetta, risponde qualcun altro per dire che "no, non possiamo chiedergli di dimettersi, perché è stato eletto dal suo popolo; e poi non saremmo in grado di controllare le conseguenze! e allora è meglio che lo lasciamo al suo posto e gli diciamo noi cosa deve fare".
Ecco, non sembra sfiorare la loro mente l'idea che, forse, potrebbero farsi gli affari loro e lasciare che ogni popolo decida per sé.

L'altra cosa "divertente" è stata la lunga discussione dal tema: "Cosa farebbe se Lei fosse il Presidente, il giorno dopo un attacco nucleare ad una città americana?".
E tutti i candidati subito lì a cercare la risposta più convincente e ad argomentare facendo come se davvero gli Stati Uniti avessero appena subito questo gravissimo attacco. ...a questo punto comincio a pensare che la prossima domanda potrebbe riguardare un'imminente invasione aliena...

sabato 5 gennaio 2008

Di ritorno a Washington



Appena ritornato negli USA, dopo un viaggio ancora più lungo del primo per via del doppio scalo, mi frulla per la testa una domanda a cui non riesco a dare una risposta sensata: ma perché nei voli nazionali che durano un'ora o poco più si sta comodi come se si fosse in crociera e invece, in quelli transoceanici della durata di oltre 8 ore, sembra di essere in un autobus urbano?