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venerdì 6 novembre 2009

Sindrome di Stendhal

Io c'ero, e posso ora dire di sapere cosa provò Stendhal a Firenze. Quando uscivo in "stato confusionale" dal Madison Square Garden a New York, era senza dubbio la sua sindrome ad aver colpito.

lunedì 11 febbraio 2008

Back to NY / 6


Ultimo giorno a NY. L'autobus di ritorno parte alle due meno un quarto.
E' domenica... e la domenica si va a messa! Prendo subito la metro, senza neanche fare colazione, per andare ad Harlem. Ho letto sulla mia guida di una chiesa famosa per i cori gospel: la Abyssinian Baptist Church (foto).
Appena sbarcato ad Harlem vedo un nero che porta, avvolta nel cellophane della lavanderia, una tunica colorata, di un rosso lucido, di quelle tipiche dei cori gospel: sono nel posto giusto!
Nonostante il sole, fa un freddo assurdo e tira vento. Non c'è molta gente per strada, ma i pochi passanti hanno un fare amichevole. Noto la frequenza insolita delle parrucchierie, una ogni dieci metri e tutte piene!
Mi dirigo verso la chiesa. Gironzolo un po' intorno, faccio qualche foto alla facciata. Cerco di capire se è possibile entrare. Sulla strada che costeggia la chiesa c'è una piccola bancarella con quadri e bigiotteria. Girato l'angolo un gruppo di turisti e un'altra bancarella, che vende dischi.
Un nero un po' attempato, cappotto lungo, cappello con falde e occhiali da sole, balla al ritmo del bel soul che viene dallo stereo sul tavolino su cui sono appoggiati i cd. Prendo tre cd che mi faccio consigliare dal venditore.
Torno all'ingresso della chiesa e chiedo se si può entrare. Il ragazzo alla porta mi dice che la fila è dietro l'angolo: quella che pensavo fosse una comitiva di turisti era la fila per entrare in chiesa!
Mi metto in coda, la funzione inizia fra circa tre quarti d'ora. Dopo mezz'ora di attesa la coda copre la lunghezza dell'intero isolato e continua dietro l'angolo per almeno altri 15-20 metri!
Stupide guide turistiche! Ti fanno credere che stai per fare una cosa originale, che stai andando a vedere una cosa per pochi intenditori e poi ti ritrovi con decine di altre persone che fanno la stessa cosa. Nell'attesa prendo un altro cd: me lo vende una signora che sta lì per conto della chiesa a tenere la fila in ordine e a vendere cd, dvd e cartoline.
Mi godo anche il passaggio di qualche gruppo di anziane donnone nere, che tutte impellicciate e con la piuma sul cappello se ne vanno a messa o chissà dove.
La sensazione di star facendo qualcosa "di massa" mi fa passare la voglia entrare. In più non sento più le mani dal freddo e, fatto un rapido calcolo, una volta entrato non potrei seguire più di dieci minuti di messa considerato che devo tornare in ostello a prendere le mie cose e poi andare a prendere il pullman.
Decido di andare: la prossima volta a New York cercherò un altra chiesa in cui andare a sentire i gospel e di cui non ci sia ancora traccia nelle guide turistiche.
Passo dall'ostello a prendere lo zaino e poi vado verso Times Square. Ho giusto il tempo per una fetta di cheese cake alla ciliegia prima di ripartire verso Washington.

giovedì 7 febbraio 2008

Back to NY / 5


Il sabato mi alzo di buon mattino. Sono stato due volte a New York e in entrambe le volte sono stato al Central Park Hostel: ma non ho ancora visto Central Park! Decido, allora, di colmare questa lacuna...
Mappa alla mano, cerco di capire da quale parte mi conviene entrare: di cose interessanti da vedere sembra ce ne siano tante, ma il parco è troppo grande per esplorarlo tutto a fondo in una sola mattinata. Central Park fu realizzato a fine Ottocento e si estende, da Nord a Sud, dalla 59th alla 110 street.
Scelgo di entrare dalla 72th West, all'altezza di Strawberry Fields, uno dei posti preferiti da John Lennon e a lui dedicato nel 1981 (il nome viene dalla canzone, Strawberry Fields Forever).
Addentrandomi nel parco arrivo a uno dei laghi, che è completamente ghiacciato. Proseguo verso sud, passando per un colorato sottopassaggio "maiolicato" e arrivo alla pista di pattinaggio su ghiaccio. Risalgo, poi, passando davanti al Central Park Zoo. Esco dopo almeno un'ora e mezzo di camminata, all'altezza della 65th street East.
Passeggiando per Central Park ogni tanto ci si rende conto che è tutto finto, innaturale... Però è certamente un bel posto, una grande oasi nel bel mezzo dei grattacieli di Manhattan. La vista dei grattacieli che sbucano in mezzo agli alberi è senz'altro spettacolare.
Anche Central Park è esattamente quello che ci si aspetta. Frotte di "runners" che passano, ognuno in tenuta da corsa e super-attrezzato, con iPod alle orecchie. Ciclisti con ogni sorta di gadget addosso o sulla bici. Passeggiatori e passeggiatrici di cani. Babbo che gioca a hockey con i figlioli... Fra chi va a fare jogging, degni di nota sono, in particolare, quelli che chiamerei gli "stroller-runner", ovvero neo-genitori che vanno a correre con il pargolo e corrono spingendo
il passeggino: ottima idea per rimettersi in forma dopo la gravidanza, no?

Uscito da Central Park mi incammino sulla 5th avenue, la celebre strada piena di negozi di ogni tipo e, soprattutto, di lussuosissimi negozi di vestiti e gioielli. Mi fermo a dare un'occhiata a un negozio di elettronica e all'NBA Store, pieno di magliette, cappellini e gadget vari, e con le immagini a grandezza naturale e i calchi delle mani di alcuni dei più grandi campioni del basketball.
Sì, "basketball" non "basket"! Perché qui si abbrevia tutto, ogni frase diventa acronimo, ogni parola si taglia il più possibile... Lo U.S. Capitol lo chiamano Cap e i Capitals (la squadra di hockey) sono ovviamente i Caps. Washington non la si chiama mai per nome, si dice D.C.! E Los Angeles è rigorosamente L.A.. Non c'è da stupirsi a sentire frasi del tipo "Lavoro nell'H.R. dell'IMF; prima stavo nel M.C. della W.B. in D.C., ma lavoravo nell'I.T." e cose simili.
Insomma, tutto si abbrevia, tutto si taglia... Ma il basket no, è basketball!
La mia passeggiata sulla 5th continua fino al Flatiron building (il Ferro da Stiro), uno dei grattacieli più strani, con la sua punta larga appena due metri per ben 87 di altezza.
Nei pressi del Flatiron incrocio una manifestazione di studenti per Obama e li seguo per un po' sperando che da qualche parte spunti il Senatore del momento.
Dopo pranzo torno in ostello a riposare un po'. Trascorro il pomeriggio bighellonando qua e là, fra Times Square e Union Square.

domenica 3 febbraio 2008

Back to NY / 4

Al MSKCC visitiamo il reparto di pediatria, guidati da un medico che ricalca fisicamente lo stereotipo dell'ebreo: minuto, capelli ricci, occhialetti e grosso naso sui folti baffi. Il reparto è, ovviamente, molto ben organizzato e attrezzato, arredato con molta cura in modo da rendere l'ambiente il più possibile adatto ai bambini.
Una bambina sudamericana, resa cieca dalla malattia, si avvicina al dottore e gli parla a lungo tenendolo per mano, mentre lui risponde disponibile e sorridente.
La sera andiamo a cena in un ristorante thailandese. Il locale, nella zona est della città, a sud di Central Park, è molto curato e si mangia molto bene. Prima di andare via, ci invitano a fare un giro dei tre piani. Sotto c'è un bancone da bar e una piccola vasca; al piano superiore, invece, una delle ultime tendenze dei locali newyorkesi (almeno così ci viene presentata): un grande letto nel bel mezzo della sala, su cui ci si può sedere a bere o mangiare e, volendo, ci si può anche mettere a dormire.
Si torna in ostello. Prima, però, decido di andare a vedere Times Square di notte... Passo vicino al Madison Square Garden e noto una piccola folla in attesa. Aspettano trepidanti il cantante che ha appena chiuso il suo concerto, Alejandro Sanz, una specie di Gigi D'Alessio "internazionale".
Meraviglie di Internet: su Youtube ho trovato un breve filmato proprio del concerto di quella sera. Wow!

giovedì 31 gennaio 2008

Back to NY / 3

Ho appuntamento per le 4 con i rappresentanti della fondazione con cui sto iniziando a collaborare. Visiteremo il Memorial Sloan Kettering Cancer Center, uno dei centri più avanzati al Mondo nella cura dei tumori. Credo abbiano inventato qui la radioterapia.
Non posso nascondere l'emozione che ho provato camminando lungo la 68th per raggiungere l'ospedale che si trova in York Ave. Il MSKCC è l'ospedale in cui è stato operato Tiziano Terzani e di cui racconta nel suo libro "Un altro giro di giostra". Da accanito lettore di Tiziano venire da queste parti mi fa un certo effetto, ripensare alla sua esperienza qui a New York, agli "aggiustatori", come lui chiamava i medici del MSKCC... Penso a come sia partito da qui il suo ultimo lungo viaggio, che lo ha portato dall'assoluta fiducia nella scienza e nella medicina occidentali, all'esplorazione di ogni sorta di cura "alternativa" e alla scoperta, infine, che una cura non esiste e che l'unica guarigione sta nell'accettare la malattia come parte di sé.
E allora, prima di andare avanti con il mio racconto, vi lascio un frammento di quello ben più interessante di Terzani:
"La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l'increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l'umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione. E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent' anni c' ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell'industria, per rifarmi una vita come la volevo. Ora c'ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. Anche la prima volta avevo sentito forte la profonda contraddizione fra la naturale gratitudine per ciò che l'America mi dava - due anni di libertà pagata per studiare la Cina e il cinese alla Columbia University per prepararmi a partire da giornalista in Asia - e il disprezzo, il risentimento, a volte l'odio, per ciò che l'America altrimenti rappresentava.

Quando nel 1967 Angela e io, entusiasti, sbarcammo a New York dalla Leonardo da Vinci che ci aveva presi a bordo una settimana prima a Genova, l'America cercava, con una guerra sporca e impari, di imporre la sua volontà a un misero popolo asiatico armato solo della sua cocciutaggine: il Vietnam. Ora l'America, con una ben più sofisticata, meno visibile e per questo meno resistibile aggressione, stava cercando di imporre al mondo - assieme alle sue merci - i suoi valori, le sue verità, le sue definizioni di buono e di giusto, di progresso e... di terrorismo.
A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Wall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come «progetti di sviluppo», c'erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei Paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri «terroristi»?
Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità. Alle otto la Quinta Strada, a sud di Central Park, a un passo da casa mia, era già piena di gente. Zaffate di profumi da aeroporto mi riempivano il naso a ogni donna che, correndo col solito cartoccio della colazione in mano, mi sfiorava per entrare in uno dei grattacieli. Che modo di cominciare una giornata! (...) La folla a quell'ora era di gente per lo più giovane, bella e dura: una nuova razza cresciuta nelle palestre e alimentata nei Vitamin-shops. Alcuni uomini più anziani mi pareva di averli già visti in Vietnam, allora ufficiali dei marines, e ora, sempre dritti e asciutti nell'uniforme di businessman, sempre «ufficiali» dello stesso impero, impegnati a far diventare il resto del mondo parte del loro villaggio globale.

Quando stavo a New York la città non era ancora stata ferita dall'orribile attacco dell'11 settembre e le Torri gemelle spiccavano snelle e potenti nel panorama di Downtown, ma non per questo, anche allora, l'America era un Paese in pace con se stesso e col resto del mondo. Da più di mezzo secolo gli americani, pur non avendo mai dovuto combattere a casa loro, non hanno smesso di sentirsi, e spesso di essere, in guerra con qualcuno: prima col comunismo, con Mao, con i guerriglieri in Asia e i rivoluzionari in America Latina; poi con Saddam Hussein e ora con Osama bin Laden e il fondamentalismo islamico. Mai in pace. Sempre a lancia in resta. Ricchi e potenti, ma inquieti e continuamente insoddisfatti. Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi: uno dei Paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L'India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo!

A volte avevo l'impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra."

martedì 29 gennaio 2008

Back to NY / 2

Scendo a Spring Street e mi dirigo verso la zona che sulla mappa è segnata come Little Italy. Fin dalla fine dell'800, Little Italy ha ospitato i nostri connazionali, in particolare i meridionali. Di questo ci si accorge subito da due cose: i nomi dei ristoranti (Vesuvio, Napoli, Sicilia, Puglia ecc.) e i negozi di souvenir pieni di magliette inneggianti alla Mafia e ai gloriosi tempi in cui i gangster italiani dominavano il quartiere.
Oggi resta molto poco di quella Little Italy, che metro dopo metro è stata risucchiata dalla sempre più grande Chinatown, con gli edifici, le insegne, gli odori e le facce cinesi.
Di Little Italy è rimasta quasi solo Mulberry Street, in cui il giallo e rosso cinesi lasciano il posto al tricolore italiano. Oltre ai ristoranti e ai negozi di souvenir, la via è piena di botteghe alimentari con prodotti tipici italiani, che hanno proprio quell'odore misto di salumi e formaggio delle nostre alimentari di un tempo, oggi fagocitate dagli ipermercati e rese asettiche dalle normative europee.
Non ho molto tempo: prendo due pezzi di pizza (considerato che siamo a Little Italy, ci sarebbe da aspettarsi molto di meglio...). Seduto al tavolo vicino a me c'è un tipo che, quando stiamo per uscire, mi chiede informazioni sulla metropolitana più vicina. La raggiungiamo insieme. Lui si chiama Joseph ed è di Orlando in Florida. Con cappello, occhiali e cappotto neri, sembra uscito da un film di Martin Scorsese. Scende un paio di fermate prima di me.
Io continuo, destinazione 68th Street, Hunter College.

lunedì 28 gennaio 2008

Back to NY /1

Sono tornato ieri da New York e ora sono qui che ascolto i cd che ho preso ad Harlem.
New York è una città che in qualche modo lascia sempre dentro qualcosa. Ci arrivo giovedì sera. Questa volta con un autobus confortevole e puntualissimo, che mi lascia a due passi da Times Square.
Giusto il tempo di mangiare qualcosa al volo e poi vado in ostello, lo stesso dell'altra volta, vicino a Central Park, sulla 103rd street west. Nella stanza ci sono 8 posti a letto, ma sono quasi tutti vuoti. Dentro c'è un ragazzo turco che, per non smentire i luoghi comuni, fuma come un turco. Mi metto presto a letto.
La mattina del venerdì mi alzo di buon mattino. Vado a fare colazione a uno Starbucks vicino l'ostello e poi prendo la metro, destinazione South Ferry. Da qui partono i traghetti che portano alle isole: Staten Island, Liberty Island e Ellis Island. La prima è un vero e proprio quartiere di New York, non una gran bella zona a quanto si dice.
Liberty Island è l'isola da cui la Statua della Libertà "fiera abbraccia tutta quanta la Nazione". Ellis Island è invece l'antico approdo degli immigrati di un tempo, quelli che arrivavano per mare alla scoperta del Nuovo Mondo. Il bel palazzo in cui un tempo le masse di immigrati venivano lasciate ad aspettare il visto per l'America, ora è sede del Museo dell'Immigrazione.
Dopo aver passato i controlli di sicurezza, prendo il traghetto per la Liberty Island. Il paesaggio è molto bello: da una parte New York e i grattacieli che si allontanano, dall'altra la Statua che lentamente si avvicina. Anche qui, più che il piacere di scoprire, vale quello di riconoscere ciò che sempre si è visto.
Faccio la fila per entrare nella Statua. La borsa devo lasciarla in una delle cassette di sicurezza, che si aprono e si chiudono con l'impronta digitale (l'amenità tecnologica costa 1$ per 2 ore, ma assolutamente ne vale la pena!). Segue una perquisizione severa, con macchinario metal detector che per qualche strano motivo che non capisco spara dei soffi d'aria addosso alla gente.
Dentro la Statua ci sta un piccolo museo: ci sono alcuni pezzi dei calchi usati per costruirla (il mio preferito è l'orecchio della Libertà), immagini varie della Statua e centinaia di riproduzioni in vari materiali e dimensioni. Ci sono anche degli schermi che proiettano un filmato su come la Statua è stata costruita.
Dopo l'11/9 la Statua è stata in parte chiusa e non si può più salire fino alla corona: si arriva solo alla fine del piedistallo, che è alto circa 45 metri (la Statua è alta altri 45 metri).
Salgo le scale fino a dove si può, faccio il giro del piedistallo e qualche foto alla Statua e a NY vista da lontano. Torno giù, vado a recuperare la mia borsa e prendo il traghetto di ritorno, che passa da Ellis Island (dove però non scendo perché non mi basta il tempo). Sono circa le 12 quando torno sulla terra ferma e salgo in metropolitana, direzione Chinatown / Little Italy.

sabato 22 dicembre 2007

New York: il viaggio di ritorno / 4

Comincia a piovere durante l'ultimo giro per il mercatino di Union Square. Finisco di sorseggiare l'apple cider caldo all'entrata della metro.
Arrivato sulla Broadway, sotto la pioggia cerco la fermata. Non è molto chiaro, perché in giro non c'è traccia dei punti di riferimento indicati sul biglietto. Chiamo anche l'autista al telefono e, dopo un'attesa più lunga del previsto, sotto la pioggia, e in punto diverso dalla fermata indicata sul biglietto. Ma tant'è, alla fine il pullman arriva e questo basta.
Il viaggio è un'odissea. L'arrivo è previsto per mezzanotte ed è passata l'una quando l'autista, seguendo le indicazione di due tizi, cinesi come lui, continua a vagare per la tangenziale di Washington. Il cicaleccio continuo è esasperante, in particolare quello di una ragazza che parla in continuazione.
Presto mi accorgo che il ritardo è dovuto a un fatto a dir poco sconvolgente: si sono persi!
Dopo circa un'ora, il pullman si ferma in un parcheggio sperduto chissà dove, i sette otto cinesi scendono e si mettono a scaricare dei pacchetti in un macchina. La fermata non era prevista e vado subito a protestare con l'autista, che mi liquida seccato. Gli chiedo se ha intenzione di pagarci un taxi per andare a casa, visto che nel frattempo la metropolitana ha chiuso.
Sono sorpreso anche dall'indifferenza di tutti gli altri passeggeri, a cui evidentemente tutto questo sembra normale.
Entriamo finalmente a Washington DC, ma presto ci accorgiamo che il pullman si dirige dritto verso la seconda fermata. Una ragazza chiede all'autista che ne è della prima fermata e lui risponde che non c'è una prima fermata, che lui va dritto a Chinatown.
Il motivo ci risulta presto chiaro: non ha la minima idea di dove andare, non conosce la strada. Oltre a questo continua ad avere un atteggiamento indisponente e ostinatamente si dirige verso la sua amata Chinatown.
Dopo insistenze varie, guidato dalla ragazza seduta dietro di me (...make a left, make a right...). Ci porta finalmente a destinazione: Foggy Bottom, George Washington University.
Sono le due di notte. Divido il taxi con la ragazza "navigatrice", che va nella stessa direzione.
Quando lei scende, scambio due chiacchiere con il tassista, afghano di Kandahar, da 30 anni negli USA. Gli dico che ho lavorato con degli afghani, dei rifugiati, che in Italia ce ne sono molti. Ci salutiamo in persiano.
Vado a dormire: fra poche ore si torna in ufficio.

domenica 16 dicembre 2007

New York / 2

Quando ci arrivo New York sembra Pechino. Ancora i cinesi protagonisti di questa avventura. Negozi cinesi, insegne cinesi (anche quella di McDonald's), passanti cinesi, puzza di fritto e di pesce secco cinese... La prima tappa è l'ostello, che sta vicino a Central Park, da cui prende il nome.
Ci si arriva in metropolitana. La metro di New York è un misto di fogna e bagno pubblico: stretta e buia, tutti i muri sono di piastrelle bianche e blu. In alcune stazioni un sospetto rivolo di acqua verdastra scorre tra i binari; in altre c'è un cartello ad avvertire che dentro ci sono i topi ed effettivamente ne spunta uno fra i binari. In un treno un tizio parla ad alta voce, in continuazione, fa facce strane e dice chissà cosa; un altro gli dice di smetterla, di stare zitto e comincia una litigata di quelle che si vedono nei film, con l'immancabile frase "questo è un Paese libero!"
Noi "washingtonians", abituati a stazioni comode, grandi e ariose, con le panchine e gli schermi con i treni in arrivo, ci stupiamo di questo tunnel desolato e sporco, in cui non c'è modo di sapere quanto manca al prossimo treno...
L'ostello è buono, pulito e ordinato, a dieci metri dalla metro. Se qualcuno dovesse trovarsi a passare da NY, ve lo consiglio, ecco il link www.centralparkhostel.com.

...continua...

giovedì 13 dicembre 2007

Arrivo a New York / 1

Arrivo a New York in autobus, dopo poche ore di sonno e una corsa "disperata". Il bus che avevo prenotato lo perdo, perche' sbaglio fermata della metropolitana: chissa' perche' ho deciso di scendere a L'Enfant Plaza, due stazioni prima di Chinatown da dove partono i bus verso New York e altre citta' vicine a Washington DC.
Partono da Chinatown e a Chinatown arrivano: sono un business dei cinesi. Cinesi sono l'autista e la sua assitente a cui diamo i 20$ del biglietto. Cinese e' il fastidioso rumore che ci accompagnera' per tutto il viaggio: 4 ore circa, nel dormiveglia, svegliato appena riesco a chiudere gli occhi dall'autista che parla al telefono. Ha un auricolare di cui vorrei conoscere la marca: 4 ore parlando di continuo, senza che il bluetooth ceda. Parlare pero' non e' il verbo piu' adatto. Giulia mi suggerisce, da Pechino, "cicalecciare". Il De Mauro non e' d'accordo, ma la prossima volta, nelle ricerche su google che fa per trovare i neologismi e misurarne l'uso, almeno una volta questa parola la dovra' contare! "Cicalecciare" e' senza dubbio il modo migliore di descrivere il suono che emette un cinese quando parla.
Il percorso e' meno interessante di come lo immaginavo. C'e' un'industria con scritto sopra "enviromentally friendly" ma con un aspetto tutt'altro che amichevole per l'ambiente, c'e' l'IKEA che e' ugale a tutte le altre IKEE del Mondo... Ogni tanto si intravedono le belle ville che siamo abituati a vedere nei film e nelle serie TV. Il prato verde, il canestro, il vialetto con il posto auto, l'auto medesima di dimensioni inutilmente spropositate e via dicendo.
Poi appare New York, da lontano, un po' velata dalla foschia. A sinistra ci sono i grattacieli, a destra, di spalle, si vede la Statua della Liberta'. Dicono sia piu' piccola di come uno se la immagina. Io da vicino non l'ho vista, ma se e' vero credo sia l'unica cosa "piu' piccola di come uno se la immagina". Perche' tutto il resto, bello o brutto che sia, e' sempre e comunque GRANDE!
...continua...

mercoledì 12 dicembre 2007

lunedì 3 dicembre 2007

"Teniss' ciento lire?"

C'è un tizio a Lecce che sicuramente qualcuno dei miei concittadini conoscerà. E' un tipo smilzo e basso, con uno sguardo spento che si fa notare.
Lo puoi trovare in ogni parte della città (ricordo di averlo visto in almeno quattro o cinque zone diverse). Ha sempre fretta, non lo vedi mai camminare lentamente: ha sempre il passo sostenuto di chi sta andando da qualche parte perché ha un appuntamento, qualcosa da fare.
Ogni tanto poi ti ferma e ti dice sempre (sempre!) le stesse identiche frasi: "Scusame, su binutu a Lecce cu li servizi sociali, aggiu persu la corriera e moi tocca fazzu lu bigliettu cu tornu a Monteroni. Nu be' ca tieni qualche sordu, pure nn'euru, no?" (traduzione: "Mi perdoni buon uomo, mi sono recato qui nella città di Lecce usufruendo del servizio di trasporto gentilmente offertomi dai servizi sociali. Avendo mancato l'appuntamento per tornare, mi trovo costretto ad acquistare il biglietto di ritorno per il ridente paesello di Monteroni di Lecce. Avrebbe qualche spicciuolo per aiutarmi a sostenere questa spesa? Anche solo un euro sarebbe sufficiente.")

Sabato prossimo vado a vedere New York e l'altro giorno sfogliavo una guida per avere un'idea dei posti da vedere (tocca fare un riassunto, perché in due giorni non si fa in tempo a visitare per bene neanche Central Park, credo). Ed ecco che alla voce "scams" (imbrogli) in cui è possibile incappare nella città, la guida recita: "C'è gente che vi ferma per strada e vi racconta storie tipo 'ho un appuntamento per andare a ritirare un assegno al mio social worker's office, mi daresti qualcosa per fare il biglietto della metro?'".

Insomma, come si dice, tutto il Mondo è Paese...